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Pittura
Eugenio Gabanino
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...È molto difficile stabilire le origini della pittura del Piemonte agli albori del Medio Evo perché pochi sono i documenti rimasti, spesso in pessimo stato di conservazione a causa non solo dell’incuria dell’uomo, delle sue volontarie distruzioni fatte per lasciare il posto ad opere successive o per il mutare del gusto, ma anche per motivi igienici, con l'uso di ricoprire di calce le pareti dei luoghi dove scoppiavano epidemie.
Va però notato che c’è anche stata una selezione operata da individui, appartenenti al clero, che decidevano quali fossero le immagini che dovevano essere tramandate ai posteri. Evidentemente erano considerate degne di memoria solo le pitture di carattere religioso ed erano sistematicamente eliminate quelle indegne.
Così scomparvero le memorie della vita profana.
Si è detto che nel Medio Evo il valore dell’immagine pittorica consisteva solamente nell’idea che in essa era raffigurata, vale a dire nella rappresentazione delle indiscutibili verità superiori del Cristianesimo.
Il resto non aveva alcuna importanza. Anzi, si voleva che il futuro avesse solo certe immagini e non altre.
Fra i più antichi resti di pittura murale in Italia sono gli affreschi del Battistero di Novara (X secolo) che illustrano una delle pagine più note dell’Apocalisse: l’apertura dei sigilli.
Questi dipinti sono molto importanti perché documentano il passaggio dall’antica concezione naturalistica classica alla nuova visione dell'arte che è scaturita da un’elaborazione culturale maturata lungo il corso di numerosi secoli.
(David e i musici, X-XI secolo, miniatore eporediese)
Già l'antichità pagana aveva sostenuto che la pittura era un espediente per avvicinare l’uomo alla Divinità.
I Cristiani s’impadronirono di questa concezione, la adattarono alla loro religione, elaborarono un nuovo sistema segnico adatto ad illustrare idee obiettivamente visualizzate e la pittura fu ritenuta un potente mezzo di divulgazione religiosa. L'opera d'arte era allora vista come un manufatto di buona esecuzione e non come espressione di una particolare individualità.
L’insegnamento canonico fondamentale avveniva per exempla: e l’exemplum .era fondato sul principio d’autorità, che secondo la scala gerarchica risaliva a Dio stesso, autorità prima e assoluta.
In queste condizioni non c’era posto per il genio individuale dell’artista. L’opera era un prodotto collettivo ed oggettivo. La qualità della fattura doveva rendere l’idea della bellezza immateriale, gareggiare con i prodotti della natura e rendere visibile la bellezza invisibile che non si sarebbe mai rivelata senza l’opera dell’artista.
I pittori non conoscevano le dotte disquisizioni teologiche e metafisiche sulla luce, ma si valevano della luce naturale che dava concretezza oggettiva ai loro lavori. Il loro linguaggio, derivato dalla disgregazione del modo di vedere e di rappresentare del mondo classico, formalizzato per secoli, non aveva però solo un significato didattico. Al naturalismo antropocentrico classico il Medio Evo sostituì una rappresentazione ideografica, iconica, bidimensionale dovuta alla nuova concezione dello spazio ed al nuovo modo di rappresentarlo. Lo spazio non è quello determinato dall’orlo del quadro attraverso il quale si vede quella realtà che deve essere illusionisticamente rappresentata, ma una superficie che deve essere colmata con linee e colori generanti un ideogramma della realtà conosciuta attraverso un processo mistico irrazionale.
La prospettiva diventa inversa e gli oggetti rappresentati hanno dimensioni diverse secondo la loro importanza. Non si ha più un’intelligenza razionale del mondo, ma una sua immagine spiritualizzata, mistica e proiettata nell’aldilà.
Questa visione del mondo, già presente nelle arti del medio e dell’estremo oriente, concorse alla crisi del linguaggio classico già prima della diffusione dell’ideologia cristiana, e la pittura cristiana ne è l’espressione. Il nuovo sistema linguistico è il prodotto del cambiamento della concezione della vita.
Certamente i primi Cristiani rivivevano i millenari miti pagani frammisti ad una concezione infantile del divino ed ai contenuti della nuova esperienza religiosa. Ne scaturì una nuova poesia di santi, angeli e diavoli.
Modi figurativi di origine celtica si osservano negli intrecci e nelle ossessive spirali, motivi geometrici si uniscono ad elementi zoomorfi che si fondono con continue metamorfosi nella figura umana. Tutto ciò non ha nulla di cristiano ma permane nel suo linguaggio pittorico. Nel sentire comune resta accanto al Redentore il tragico senso pagano del fato che si manifesta nelle drammatiche evocazioni del giudizio universale, dell’inferno, nella ossessiva produzione di mostri. È una visione cupa e terrorizzante del mondo.
Agli elementi decorativi autoctoni si aggiungono elementi orientali, persiani, palestinesi, copti che sono portati in Europa attraverso il commercio di stoffe e di sete.
Il patrimonio pittorico medioevale piemontese resta saldamente ancorato a quello europeo e conferma tutte le considerazioni fatte. Analisi critiche e storiche di tale patrimonio si presentano assai difficili, anche perché esso è stato via via decurtato ed impoverito. Inoltre, pochi sono stati i dipinti d’artisti del Piemonte collezionati dai Sabaudi, che non sempre privilegiarono la produzione strettamente legata alle loro terre.
La pittura piemontese riviveva allora gli avvenimenti assai complessi di quel periodo storico di continue invasioni straniere e caratterizzato dai mutevoli legami matrimoniali stipulati dalle classi dominanti per soddisfare le mire d’ampliamenti territoriali. I governanti che si alternavano, si valevano di botteghe diverse secondo i differenti gusti, e commissionavano opere spesso molte eterogenee per qualità e stili.
Tra i più antichi documenti rimasti delle origini della pittura piemontese, vi sono a Mondovì una serie di affreschi con caratteristiche tardo romaniche ed evidenti influssi bizantini e a Vercelli delle miniature e rotoli. Di quel periodo si possono evidenziare gli scambi avvenuti tra i vari pittori oltremontani che continuamente rinnovavano e arricchivano a produzione locale. Gli artisti sapevano fare tesoro delle esperienze oltrealpine, come si può osservare negli edifici di culto di quell’epoca a Vezzolano e a Susa.
È molto importante tenere presente che, proprio grazie alla fitta rete di strade, soprattutto la via franchigena, i pittori piemontesi potevano facilmente spostarsi e così portare in luoghi diversi le loro esperienze artistiche e le loro conoscenze tecniche e ciò spiega perché nel Piemonte occidentale vi fosse un’adesione più stretta alla maniera gotica francese che non nella parte orientale.
Il Piemonte, che nel XIV secolo si estendeva anche al di là delle Alpi, fu infatti sempre un ricco crocevia culturale e punto d’incontro delle esperienze artistiche evolutesi sui due versanti alpini, e proprio i suoi numerosi passi di transito facilmente agibili permisero lo scambio di esperienze diverse.
Nel Piemonte orientale invece, la cultura lombarda si fa sentire in modo più evidente: partendo da Montiglio, a poco a poco giunge fino a Torino per poi espandersi anche nella parte occidentale (Alba, Savigliano).
Nel Piemonte occidentale il primo documento pittorico dell’inizio del XIV secolo, ancora fortemente influenzato dalla maniera francese, si ha nella Crocifissione conservata nell’Abbazia di Vezzolano.
Esso è caratterizzato dall’impiego di colori molto vivi e da un segno grafico assai marcato che danno al dipinto un carattere drammatico accentuato dalla marcata bidimensionalità, e documentano il graduale passaggio da un formalismo simbolico romanico ad una rappresentazione realistica sempre più accentuata.
Influssi emiliani possono altresì essere messi in evidenza, soprattutto nell’area sud occidentale.
Essi segnano un momento di passaggio dalla tradizione locale verso il gotico internazionale e si riconoscono in tutta una vasta serie d’opere che si distinguono per il lusso ostentato e il raffinatissimo gusto grafico con chiara funzione decorativa.
L’origine del gotico internazionale è fatta risalire all’attività culturale delle grandi corti trecentesche di Parigi, di Digione e di Milano: da queste città si estese per un vasto territorio fino a raggiungere le terre sabaude e la Valle d’Aosta (Castello di Fenis). In Piemonte sarà accolto con vivo entusiasmo e quivi permarrà per lungo tempo. Dilagò allora la moda di decorare edifici privati, pubblici, chiese, abbazie, cappelle devozionali con il nuovo linguaggio del gotico internazionale proprio perché è in costante equilibrio tra il modo cortese e un’attenta osservazione della vita di tutti i giorni, e può soddisfare una committenza eterogenea.
Le corti di Saluzzo, di Chambery e di Thonon, allora parte del Piemonte, divennero centri importanti dove, per il persistere di strutture politiche feudali, il gotico internazionale fu coltivato e sviluppato più a lungo che in altri luoghi, addirittura fino alla fine del ‘400. Quivi furono creati cicli di soggetti profani come quelli che decorano la sala baronale del Castello di La Manta presso Saluzzo (1435-1440).
A questo ciclo pare certo che abbia partecipato il grande pittore Jaquerio, reduce dall’esperienza di Fenis. Attraverso il simbolismo accattivante di queste opere si cerca di arrivare ad un sincretismo religioso che mira ad accomunare tra loro le religioni ebraica, pagana e cristiana. Si racconta la storia di nove prodi e nove eroine, mitiche figure tratte dall’antichità, compagni di saggi filosofi del passato, che tuttavia vestono i lussuosi abiti dell’epoca e passeggiano su morbidi tappeti d’erbe e fiori.
Le linee sinuose dei contorni ben delineati, la gran compattezza dei colori, i voluminosi panneggi, le aureole di forma stellata denotano la forte influenza dello stile francese.
(Affresco del castello della Manta)
Infatti, fin dal Trecento i Marchesi di Saluzzo, volendo contrastare i Savoia, cercarono di avvicinarsi ai re francesi, e gli effetti si fecero sentirenza su tutti gli aspetti della cultura. Tommaso III scrisse il poema
Le Chevalier errant e e portò dalla Francia il Roman de Fauvel, dove si parlava della “Fontana della giovinezza” che fu rappresentata con affreschi nel Castello della Manta. Il tema della Fontana della giovinezza fu particolarmente coltivato nelle regioni della Francia provenzale e si diffuse in tutta l’area tedesca e fiamminga. L’acqua risana dai mali fisici, come racconta Ovidio, e vince la vecchiaia e la bruttezza, ma risana anche l’anima secondo il mito medioevale dell’acqua come fondamento dell’universo.
Il terrore che la morte allora suscitava in tutti gli strati sociali è esorcizzato dall’acqua miracolosa, che sa dare l’eterna giovinezza anche ai vecchi malati.
L’iconografia gotico cortese della sala baronale del Castello rievoca il Paradiso terrestre con i suoi quattro fiumi e la cristiana Fonte della Vita s’identifica con la pagana eterna giovinezza, che è data a tutti gli uomini di ogni estrazione sociale (sono rappresentati re europei e comandanti orientali, sacerdoti e contadini, ricchi e poveri). Anche gli animali possono godere delle sue virtù come dimostra un fagiano che sfugge ad un levriero che vuole catturarlo. Però la vera immortalità e l’eterna salvezza si può ottenere solo mediante il sacrifico del Cristo che con il Suo sangue vince la morte e il peccato, secondo il tipico sentire dell’uomo medioevale. L’aspetto profano fuso con il simbolismo religioso, che non nasconde mai il grido medioevale della Morte sempre in agguato, si ritrova anche a Fenis dove, nel 1431-1433 era stato dipinto un ciclo di pitture del tutto paragonabili a quelle conservate a La Manta.
La loro funzione era nello stesso tempo decorativa e pedagogica per la sua complessa valenza iniziatica.
Il visitatore è accompagnato attraverso un percorso elicoidale, seguito dall’alto da maschere apotropaiche, sino al cortile interno al Castello. Seguendo un percorso in salita il visitatore raggiunge il Purgatorio fino ad incontrarsi con i Saggi, che lo introducono attraverso una magica porta nella gran sala illuminata da finestre crucifere e le cui pareti sono affrescate da immagini sacre: la conoscenza del passato serve a portare l’iniziato alla conoscenza delle Verità incarnate dal Cristianesimo
Allora l’iconografia religiosa era costante in tutto il Piemonte, e seguiva le indicazioni dei teologi che dovevano dare il loro consenso prima dell’esecuzione, poiché i temi religiosi costituivano la Bibbia illustrata per i poveri analfabeti, e dovevano sempre rispecchiare l’ortodossia ufficiale. Stessi gli episodi, stessi i costumi, stessi i modi narrativi, stesso il linguaggio espressivo. Si può a ragione parlare di una sorta di diffusa unità stilistica nel momento storico a cavallo tra il ‘400 e il ‘500.
La tradizione è tramandata da pittore a pittore, da bottega a bottega, ed è seguita con ossequiosa fedeltà dai pittori considerati minori perché non dotati da una forte personalità.
Soltanto un pittore si distingue dalla massa anonima. Il suo nome, noto solo dal 1914, è Giacomo Jaquerio. Noi sappiamo ora con un certa precisione dove operò e in quali anni. Nel 1403 decorò la finestra del Castello ducale (Porta Fibellona, ora Palazzo Madama), nel 1418 lavorò a Pinerolo per i Principi d’Acaja; in seguito si recò a Thonon per volere d’Amedeo VIII; a Torino si fermò fino al 1440. Morì nel 1453.
Jaquerio è un tipico pittore itinerante e la sua arte si arricchisce via via dalle conoscenze acquisite nei luoghi dove lavora (a Thonon incontra il pittore veneziano Gregorio Bono). È difficile ricostruire la sua formazione per i continui scambi d’informazioni che provengono da città come Avignone, Digione, Milano, Pavia.
La sua forte personalità si esplica in un eccezionale livello inventivo che si esprime con un autentico linguaggio popolaresco.
L'opera più nota di Jaquerio si trova nell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, presso Torino, un importantissimo centro fondato da Umberto III di Savoia per dare ristoro ai pellegrini che si recavano in Francia attraversando il Moncenisio. Annesso vi era anche un ospedale per curare i lebbrosi.
I cicli d’affreschi mostrano una chiara influenza del gotico internazionale nel sapiente e ricco uso dei pigmenti, nel raffinato drappeggio dalle linee fluenti ed ansate, nello studiato contrasto tra il lusso dei paramenti sacri e i rozzi vestiti dei pastori.
Proprio la rappresentazione dei pastori dimostra la nascita di un sentito realismo che, superando i modi gotici di maniera, diverrà un motivo d’interesse che si farà sentire fino a Spanzotti e a Tanzio da Varallo e influenzerà anche la scultura piemontese dell’epoca.
Il contributo di Jaquerio supera dunque la maniera gotica e dà un’impronta caratteristica a tutto il successivo corso della pittura piemontese.
I Profeti .restano un tipico e insuperato esempio: essi furono dipinti sotto il trono della Madonna ed emergono da uno squadro prospettico. Senza uscire dalle vecchie tematiche, Jaquerio resta un pittore di vita, influenzato però dall’avvincente cultura di corte d’Amedeo VIII, aperta alle nuove esperienze e in continuo fermento. La sua pittura va oltre il lusso decorativo fine a se stesso e presenta una vena malinconica e patetica che sarà una caratteristica dell’arte piemontese per molto tempo.
Giacomo Jaquerio, I profeti, Sant’Antonio di Ranverso
Martino Spanzotti è un altro gran pittore di questo periodo, attivo dal 1475 al 1523. Figlio d’arte (del padre Pietro e del fratello Francesco si conoscono numerosi lavori), di provenienza varesina, ha lasciato una copiosa mole di lavori che testimoniano varie influenze che vanno dall’Emilia (forse conosceva l’opera del Cossa bolognese) alla Toscana (conosce i lavori di Piero della Francesca), come testimoniano le tavole di Santi e Sante e la Storia di Cristo conservata nella chiesa di San Bernardino ad Ivrea. Lavora a Chivasso, a Casale e a Torino. Notevole è il Battesimo del Duomo di Torino, terminato da Defendente Ferrari, pittore che si era formato proprio nella bottega dello Spanzotti.
L'attività di Defendente Ferrari è testimoniata in Piemonte dal 1509 al 1535. La sua prima produzione presenta ancora spiccate influenze gotiche derivate da una diretta conoscenza della pittura fiamminga, che si possono evidenziare nella ricca tessitura cromatica della sua Adorazione dei Magi conservata alla Galleria Sabauda di Torino.
Il suo stile, di un sentito impatto emotivo, testimonia un forte effetto devozionale che allora suscitava notevoli consensi da parte della committenza che predilige il suo discorso pittorico ricco di un sapiente grafismo d’origine nordico. Un esempio per tutti: la Natività notturna .del Museo Civico di Torino. La sua produzione però non si vale solo di modelli già sperimentati, perché spesso stilemi consolidati sono alternati da momenti di maggiore libertà espressiva dovuta ad una ricca individualità artistica.
La presenza di Defendente Ferrari è nota a Torino, ad Avigliana e ad Ivrea.
Gian Martino Spanzotti, Madonna in Trono, 1475-80
Personalità molto complessa è quella di Gaudenzio Ferrari (Valduggia 1475-80, Milano 1546).
Le notizie che abbiamo sulla sua formazione artistica sono molto incerte e frammentarie e si desumono dall’analisi stilistica delle sue opere. Con molta probabilità c’è stata un’influenza lombarda (Bramante) che è stata amalgamata alle tradizioni piemontesi, come denotano la Crocifissione e la Cappella del Sepolcro del Sacro Monte di Varallo. La sua produzione successiva mostra un addolcimento cromatico, segno della molto probabile conoscenza della poetica del Perugino. Si è anche rilevata la maniera di dipingere del Bramantino che sarà riscontrabile nella sua pittura per molto tempo. In seguito ad un viaggio nell’Italia centrale, la sua arte risentirà delle varie novità che via via incontrava. La sua attività fu molto intensa e diversificata, espressione sempre di una grande maturità artistica. Laddove si evidenziano punti meno felici si deve pensare all’intervento di collaboratori, indispensabili per fare fronte a tutte le numerose richieste della committenza. Nelle tarde opere si riscontra l’impronta manierista che si era affermata in quegli anni in molteplici regioni italiane. Opere di Gaudenzio Ferrari si trovano nella Galleria Sabauda di Torino.
Sempre in ambito vercellese va ricordata un’altra notevole personalità artistica: quella di Bernardino Lanino (Vercelli 1512, 1583). Verso il 1530 entra in rapporto con Gaudenzio Ferrari, che ebbe su di lui una profonda influenza. A Vercelli esercitò un’intensa attività di frescante che fa tesoro dell’insegnamento di Giovenone, da cui si distingue però per un più sentito e personale accento malinconico.
Quando Gaudenzio si reca a Milano, Lanino diventa l’interprete privilegiato dei gusti della committenza locale. Basti ricordare l'Ascensione della Vergine e la Deposizione di Cristo.
Verso la metà del secolo, l’artista entra in contatto con pittori leonardeschi di cui diventa un interprete forse troppo letterario, e la sua produzione perde di originalità e freschezza. In seguito la sua pittura sarà influenzata dai più moderni manieristi.
L’incarico conferitogli da Emanuele Filiberto di dipingere le armi ducali contribuì in modo decisivo alla diffusione della sua conoscenza in tutto il Piemonte.
Bernardino Lanino, Vergine col Bambino, 1543 ca
Nel Piemonte occidentale, tra il '400 e il '500 vive un altro importante artista: Macrino d’Alba (morto verso il 1528 ?). Le scarse notizie biografiche sono dedotte dalle date applicate ad alcune sue pitture e dalle iscrizioni apposte alla base d’opere importanti.
La sua ricca produzione soddisfa le numerose richieste di una committenza aulica, come quella dei Paleologi, sparsa nel vasto marchesato di Monferrato. Al di fuori della corte fu aprrezzato particolarmente dai Certosini (Asti e Pavia).
La sua pittura, quasi tutta su tavola, risente della esperienza di vari artisti come il Foppa, il Signorelli, il Ghirlandaio, e in particolare il Pinturicchio e F. Lippi.
Forse verso il 1492-93 si è recato a Roma: i ruderi romani, che possono simboleggiare il passare del tempo, e le grottesche, sono indizi del rinnovato gusto alla fine del Quattrocento per l’archeologia. Cenni molto espliciti alla grandezza passata di Roma si riscontrato in tutta la sua pittura successiva.
Macrino d'Alba, Ritratto di Anna di Alençon
Forse verso il 1492-93 si è recato a Roma: i ruderi romani, che possono simboleggiare il passare del tempo, e le grottesche, sono indizi del rinnovato gusto alla fine del Quattrocento per l’archeologia.
Cenni espliciti alla grandezza passata di Roma si riscontrato in tutta la sua pittura successiva.
Al 1495 risale la sua prima opera datata: il trittico Madonna col bambino, santi e donatori (Torino, Museo civico); l’ultima opera datata è La Madonna col Bambino (1513, Torino, collezione privata).
La qualità più alta del pittore è quella ritrattistica, che si manifesta nel San Tommaso del trittico già citato. Nel 1505 lavora per il Duomo di Torino. Macrino fu certamente un valido rappresentante della pittura del Rinascimento in Piemonte e si caratterizza per una personale e vibrante intonazione malinconica e dolce. Molte sue opere si possono ammirare alla Galleria Sabauda di Torino, come l'Adorazione allegorica del 1505 e I Santi Gregorio Magno e Ambrogio del 1506. Molte altre sono conservate a Londra, New York, Francoforte.
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